Divieto di testimonianza e giusto processo

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    Feb 10, 2019
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    1) Premessa
    Sul finire del secolo XIX, nel nostro ordinamento giuridico nazionale veniva introdotto, per la prima volta, un assetto normativo speciale dedicato alle controversie in materia fiscale.
    Tuttavia, nel tempo, si è rivelato indispensabile mantenere un legame indissolubile tra giustizia tributaria e giustizia civile.
    È con le prime leggi sull’imposta di ricchezza mobile che furono istituite le prime Commissioni Amministrative Mandamentali, le Commissioni Provinciali e la Commissione Centrale.
    Più compiutamente la materia è stata disciplinata con il R.D.L. 07/08/1936 n. 1639 sulla riforma degli ordinamenti tributari, e dal R.D. del 08/07/1937 n. 1516 sulla costituzione delle Commissioni Amministrative in materia di imposte dirette e indirette sugli affari, leggi che provvidero, tra l’altro, a mutare l’originaria denominazione delle Commissioni e ad ampliarne la competenza.
    Un’ulteriore rivisitazione della disciplina sul contenzioso tributario si ebbe con l’emanazione del D.P.R. 26/10/1972 n. 636, che contestualmente alla riforma tributaria, istituiva l’IVA, IRPEF, IRPEG, ILOR, registri bollo successioni e INVIM.
    Il processo si articolava in due gradi di giudizio dinanzi alle Commissioni di primo e secondo grado, seguiti da un terzo grado innanzi alla Commissione Tributaria Centrale o dinanzi alla Corte d’Appello, le cui decisioni erano impugnabili per Cassazione.
    La normativa del processo tributario oggi è disciplinata dal D.lgs. 31/12/1992 n. 546 il quale è modellato largamente sul processo ordinario di cognizione, tanto che l’art. 1, comma 2 del D.lgs. n. 546 così recita: “ i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.
    Infatti, nel giudizio di Cassazione vi è il pieno operare delle norme processuali civili, in quanto lo stesso è regolato esclusivamente dal codice di procedura civile e, pertanto, ammissibile esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c..
    Tutto ciò va ad innestarsi in un quadro normativo preordinato nel quale le linee fondamentali della giustizia tributaria sono rette dai principi scolpiti negli art. 24,101,102,104,108 e 113 della Costituzione, nei primi due commi dell’art. 111 della stessa Carta, e nell’art. 6 della Convenzione Europea.
    2) Divieto di testimonianza
    L’attuale normativa del processo tributario vieta espressamente il ricorso alla prova testimoniale.
    Tale proibizione deriva dal fatto che tale tipo di contenzioso è fondato essenzialmente sulla prova documentale, con la previsione di presunzioni e di preclusioni dettate dalle specifiche disposizioni di riferimento.
    Il divieto di testimonianza, previsto dall’art. 7, comma 4, del D.lgs. 546/1992 , secondo cui non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale, incarna l’idea per la quale il carattere prevalentemente scritto del processo tributario non può tollerare l’assunzione di una prova a contenuto e forma esclusivamente orale come l’originaria prova testimoniale, e ciò si concilia anche con l’esigenza di celerità nella riscossione dei tributi (Corte Cost. Sent. n. 18 del 21/01/2000).
    La Corte Costituzionale ha più volte negato l’illegittimità costituzionale di tale divieto sostenendo che tale previsione non si pone in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, di volta in volta evocati dai giudici rimettenti quali parametri di sindacato di costituzionalità.
    Orbene, la Suprema Corte ha rilevato altresì, che non esiste alcun principio costituzionale che imponga l’uniformità di rito tra le diverse tipologie di processo, e che il legislatore nella sua discrezionalità è ritenuto libero di stabilire regole diverse anche con riferimento al novero dei mezzi di prova ammissibili, in funzione delle peculiari caratteristiche e tradizioni delle singole giurisdizioni.
    Il divieto di prova testimoniale sarebbe, pertanto, è giustificato dalla esclusiva peculiarità del contenzioso tributario derivante dalla natura del rapporto oggetto del giudizio, e che, a sua volta, rende necessaria una specifica formazione del giudice.
    Diversamente l’esame testimoniale è previsto sia nel processo civile e nel processo penale, ed in quest’ultimo costituisce addirittura la prova “principe”.
    L’A.F. può, utilizzare per legge “dichiarazioni di terzi raccolte nell’istruttoria amministrativa mentre il contribuente è legittimato, con il solo avvallo giurisprudenziale ad introdurre dichiarazioni scritte di terzi, dichiarazioni scritte raccolte fuori e prima del processo e senza contraddittorio tra le parti” (Cfr. Sent. Cass. N. 10261 del 21/04/2008).
    Nasce comunque un interrogativo sia nel cultore che nell’operatore del processo: può essere compromessa la “tutela effettiva” del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione ed il principio della “parità delle armi” processuali, corollari del giusto processo (art. 111 Costituzione) con riferimento all’utilizzo da parte dell’Amministrazione Finanziaria della dichiarazione dei terzi, raccolte in sede pre-giudiziale, al di fuori e prima del processo?
    Ad esse viene assegnato mero valore indiziario e non di prova, giacché possono essere contestate dall’altra parte con dichiarazioni contrarie e sono rimesse alla prudente valutazione del Giudice.
    Dunque, le dichiarazioni dei terzi possono essere utilizzate dall’Amministrazione Finanziaria per contestare l’esistenza di maggior reddito non dichiarato (utili distribuiti da società e risultanti dalla dichiarazione di sostituto d’imposta) a prescindere dal fatto che il maggior reddito non risulti dalle scritture contabili.
    Queste ultime fanno, infatti, prova avverso l’imprenditore, e non a suo favore, così come previsto ex art. 2709 c.c., fatta salva l’eccezione stabilita dall’art. 2710 c.c..
    Qualora rivestano i requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c., danno luogo a presunzioni semplici ai sensi degli artt. 39 del D.P.R. 600/1973 e 54 D.P.R. n. 633/1972.
    Non senza valutare una ipotesi di incompatibilità tra il divieto sancito dall’art. 7, comma 4, del D.lgs. 546/92 e quelli posti ad altri livelli ordinamentali, come quello comunitario o internazionale, con particolare riferimento alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, in cui il rigore letterale del divieto di testimonianza e l’incertezza relativa all’applicazione di istituti civilistici o processuali – civilistici rende auspicabile un diretto intervento del legislatore, preferibilmente nell’ambito di una più vasta riforma organica e strutturale del D.lgs. 546/92 volta a risolvere gli annosi e complessi nodi della giustizia fiscale.
    3) Giusto processo tributario e norme costituzionali.
    L’istituzione di una giurisdizione ad hoc per le liti tributarie non è espressamente prevista dalla Costituzione.
    I principi di giusto processo sono stati inseriti nell’art. 111 della Costituzione attraverso il comma 1 della legge Costituzionale 23/11/1992 n. 2.
    Altri principi fondamentali in materia tributaria sono quelli di indipendenza, terzietà, imparzialità e competenza professionale del giudice e della tutela del diritto di difesa.
    La seconda fonte normativa, che può teoricamente generare un tipo di modello processuale riconducibile ai canoni astratti del giusto processo, è costituita dalle Convenzioni Internazionali alle quali l’Italia aderisce.
    Ci riferiamo, in particolare, all’art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’art. 14 del Patto sui Diritti Civili e Politici e, last but not least, all’art. 6 della CEDU.
    Sulla scorta di queste norme sarebbe auspicabile una revisione da parte del Legislatore nazionale affinché sia varato un modello di processo tributario che aderisca il più possibile al principio del “giusto processo”.
    Ai sensi dell’art. 101 della Costituzione, i Giudici sono soggetti soltanto alla legge ed, a norma dell’art. 108 Cost., questa deve assicurare l’indipendenza dei Giudici delle giurisdizioni speciali.
    L’attuale assetto delle Commissioni Tributarie di cui al D.lgs. 31/12/1992 n. 545, invero, non garantisce l’indipendenza dei giudici tributari seppur, ai sensi della legge 13/04/1988 n. 117, essi rispondono dei danni causati nell’esercizio delle loro funzioni;
    Inoltre, ai sensi degli artt. 15 e 16 del D.lgs. 31/12/1992 n. 545 i Giudici tributari sono sottoposti a sanzioni disciplinari ed, ai sensi dell’art. 6 del D.lgs. 31/12/1992, possono essere ricusati.
    Tali circostanze sono giustificate dal fatto che le Commissioni Tributarie sono collegate al Ministero dell’Economia e delle Finanze i cui poteri, di vario genere (il potere di determinare i compensi spettanti ai giudici), non appaiono compatibili con i requisiti costituzionali di indipendenza e terzietà del Giudice.
    Un ulteriore dato da rilevare è che la giurisdizione tributaria non è esercitata da Magistrati di ruolo, e le norme sulla composizione delle Commissioni con riferimento particolare agli artt. 4 e 5 del D.lgs. 31/12/1992 n. 545 pur con le modifiche apportate dall’art. 39 del D.L. 06/07/2011 n. 98, non sono conformi alle regole del giusto processo .
    I Giudici tributari, anche per la crescente complessità delle norme da applicare, non possono essere né onorari, né “part-time”. Devono essere Giudici togati, specializzati ed a tempo pieno.
    Si aggiunga, infine, che la necessità di un trattamento economico adeguato è un requisito dell’indipendenza come affermato dalla Corte Costituzionale con Sentenza 11/10/2012 n. 223.
    4) Preclusioni processuali e giusto processo
    Nella disciplina dell’art. 111 della Costituzione la qualifica di “giusto” si riferisce al processo inteso come struttura formale dello ius dicere, e non alla sentenza o al giudizio.
    Pertanto, è giusto il processo che garantisce un procedimento “corretto” piuttosto che quello che assicura una sentenza “giusta”, laddove l’imparzialità e l’indipendenza del giudice sono garanzie di carattere formale.
    Esse non assicurano in alcun modo la sentenza “vera”, ma solo la sentenza formata senza l’interferenza, rispetto al giudicante, di interessi ulteriori, e cioè quando non ha nulla a che vedere con la verità del risultato.
    La stessa considerazione vale per il “contraddittorio” inteso come elemento essenziale del processo intero, quale “procedimento” ossia scansione e sequenza di atti in rapporto di condizionamento e di controllo fra loro.
    La garanzia del giusto processo trova il suo momento centrale nelle regole che presiedono al suo svolgimento, ossia nell’equilibrio fra i poteri attribuiti alle parti e al giudice, nonchè nella corretta scansione dei momenti di esercizio dei poteri medesimi.
    Da qui appare evidente il rapporto strettissimo fra preclusioni e giusto processo.
    5) Le preclusioni “pro giudicato”
    Il “giudicato” è considerato la preclusione per eccellenza e l’unico e vero giudicato è quello “esterno” come disciplinato dall’art. 2909 c.c. secondo cui “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato (c.p.c. 324) fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa (1306 e 1595 c.c.)”.
    Senza l’efficacia cd. esterna non vi è giudicato, di talché è corretto parlare di essa come di efficacia tout court, senza poter ricorrere ad altre – ed ultronee – qualificazioni.
    Preclusioni e poteri officiosi del giudice – poteri delle parti e giusto processo
    Il processo tributario è essenzialmente un processo “impugnatorio” le parti quindi introducono i fatti nel processo ed hanno il potere di allegazione secondo il principio dispositivo.
    L’avviso di accertamento, come più volte affermato dalla Cassazione, non rappresenta un atto processuale bensì un atto amministrativo con il quale l’Amministrazione Finanziaria esercita la potestà impositiva e determina gli elementi costitutivi della pretesa tributaria attraverso l’adempimento dell’obbligo di motivazione, la quale , altresì, assume la funzione di delimitare la materia del contendere nel processo speciale tributario di impugnazione-merito.
    Il ricorrente che impugna l’avviso di accertamento, deve indicare nell’atto introduttivo i “motivi” del ricorso, nonché indicare i fatti rilevanti e allegare al ricorso tutta la documentazione a supporto.
    La preclusione al potere di allegazione matura per il ricorrente, quindi, con la presentazione del ricorso.
    Tuttavia, in un solo caso, sussiste una possibilità di superare tale preclusione ed è quella prevista dall’art. 24, comma 2, del D.lgs. 546/1992 del deposito di “documenti non conosciuti”.
    Per la “parte resistente” è escluso, in sede di “costituzione in giudizio”, un potere di allegazione di nuovi fatti costitutivi della pretesa, essendo tale potestà limitata alle sole allegazioni direttamente consequenziali a quelle effettuate dal ricorrente (ossia quelle che si configurano come allegazioni di fatti impeditivi, modificativi o estintivi dell’efficacia di quelli allegati ex adverso).
    Ciò ai fini della garanzia del principio del contraddittorio.
    Quanto ai successivi gradi di giudizio, fermo restando la possibilità comunque di allegare i fatti che attengono alla invalidità della sentenza in ogni fase di gravame, la preclusione all’allargamento dei motivi di ricorso sembra assoluta, ritenendosi in modo pressoché unanime, che, pur dovendosi distinguere fra domande e motivi, il divieto posto dall’art. 57 del D.lgs. 546/1992 si estenda anche alla proposizione di motivi nuovi.
    È pacifico che il processo è essenzialmente scansione di attività e atti la cui ordinata e coerente successione è garantita dalla apposizione di termini per il compimento di ciascuna determinata attività, ed è evidente il potenziale conflitto che si viene a determinare rispetto all’esercizio di poteri di intervento officiosi del giudice.
    Scaduto il termine previsto dalla legge per il compimento di una determinata attività processuale, la parte decade dal poterla porre in essere.
    Il legislatore, al fine di mitigare tale rigore, qualora la decadenza sia da ricollegare a causa non imputabile alla parte, ha introdotto l’istituto della rimessione in termini mediante l’introduzione dell’art. 45 comma 19, della Legge n° 69/2009 che, abrogando l’art. 184 bis del c.p.c., ha inserito un secondo comma nell’art. 153 c.p.c. a tenore del quale la parte che dimostra di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, può chiedere al giudice di essere rimesso in termini, tale norma trova piena e legittima attuazione nel rito tributario.
    È previsto pertanto che la parte potrà presentare al giudice apposita istanza avente la stessa forma processuale dell’atto che non si è perfezionato nei termini, all’interno della quale dovranno essere specificati i fatti ovvero le circostanze impeditive dell’osservanza del termine legato al compimento di una determinata attività processuale.
    Il giudice ai sensi dell’art. 294 c.p.c. “se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell’impedimento, e quindi provvede sulla remissione in termini della parte.
    La ratio della norma risiede nel principio generale di superiore giustizia, coessenziale alla garanzia costituzionale dell’effettività della tutela processuale.
    In definitiva, appare evidente che l’articolazione dei poteri delle parti nell’attuale disciplina del processo tributario, ivi incluse le relative preclusioni, può ritenersi sostanzialmente conforme al principio del giusto processo e, pertanto, in armonia con i principi costituzionali.
    6) Poteri istruttori del Giudice
    Esamineremo di seguito i poteri esclusivi del giudice, quelli condivisi con le parti, nonchè le conseguenze ed i rimedi esistenti per il caso in cui vi siano “interferenze” fra l’esercizio di questi ed il principio del contraddittorio.
    Il processo tributario è retto dalla regola di cui all’art. 2697, I comma, c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Il secondo comma di tale disposizione prevede che “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
    L’art. 7 del D.lgs. 546/1992 inoltre affida al giudice poteri istruttori da esercitarsi dopo la scadenza del termine previsto per l’allegazione di documenti.
    Tuttavia, si ritiene che il divieto di nuove prove in appello paralizzi anche la possibilità, da parte del giudice, di richiedere nuove prove in giudizio.
    Gli effetti di tale previsione si sostanziano nell’impossibilità per le Commissioni Tributarie Regionali, quale organo di secondo grado della giustizia tributaria, di integrare il contraddittorio con nuovi elementi.
    Le Commissioni Tributarie, sempre ai sensi dell’art. 7 del D.lgs. 546/1992, “ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta”. In particolare, tale norma prevede che i Giudici tributari possano richiedere relazioni, disporre consulenza tecnica e, se ritengono illegittimo un regolamento, possono disporne la disapplicazione.
    Si rammenta, inoltre, che ai sensi dell’art. 7 comma 4 D.Lgs. 546/1992, non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.
    Ai sensi dell’art. 8 del D.lgs. 546/1992 la Commissione Tributaria “dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obbiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”. [all’art.10 (tutela dell’affidamento e della buona fede – Errori del contribuente) L. 212/2000; art.6 (Cause di non punibilità) D.lgs. 18/12/1997 n. 472 e art. 15 (violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie) D.lgs. 10/03/2000 n. 74].
    Ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c. se il Giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevabile e rilevata d’ufficio, nel rispetto del principio del contraddittorio, deve assegnare un termine alle parti per consentire di esercitare, indipendentemente dalle preclusioni maturate, tutti i poteri che sono consequenziali alla natura della questione officiosamente rilevata (formulare osservazioni, allegare e provare).
    L’art. 384, comma 3, c.p.c. prescrive anche per il Giudice del giudizio di Cassazione che rileva per la prima volta una questione, l’obbligo di riservare la decisione e assegnare termine alle parti per controdedurre.
    La previsione di questo obbligo di attivare il contraddittorio in caso di rilievo officioso di una questione presuppone, ovviamente, anche il potere di rilevare officiosamente la questione proprio per il rispetto del principio del contraddittorio.
    Anche nel giudizio di legittimità il rilievo di una questione nuova in via officiosa deve consentire alle parti di esercitare tutti i poteri difensivi connessi alla questione medesima, ivi inclusi i poteri di allegazione e prova.
    7) Considerazioni conclusive
    Ezio Vanoni, in “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze” nel 1938, argomentava sull’esigenza di affidare il “processo tributario” ad un unico ordine giudiziario, nei tre gradi normali di giurisdizione, a Tribunali formati in parte da Giudici togati ed in parte da Giudici onorari. Ezio Vanoni scrive: “la proposta di creare dei tribunali muove dal pensiero che la specialità della materia richiede una specializzazione nella formazione e nella cultura dei giudici, ed un ordinamento formale del processo che diverga da quello del processo ordinario”. (da Scritti Francesco Forte nella Collana “Mercato, Diritto e Libertà” – Ezio Vanoni – Economista pubblico)
    Oggi tutto ciò sarebbe possibile attraverso la formazione di “ sezioni speciali” così come già avviene in Cassazione.
    La Corte del Conti, Sezione Centrale di controllo, ha diffuso i dati del contenzioso dinanzi alle Commissioni Tributarie e dei relativi effetti sulle entrate erariali.
    La relazione finale, adottata con delibera del 20/06/2017, conclude con alcune raccomandazioni rivolte al legislatore affinchè valuti l’opportunità di affidare, in primo grado, la definizione delle liti pendenti di valore più contenuto ad un giudice monocratico. Tale opportunità risponde alla necessità di razionalizzazione degli ambiti territoriali delle Commissioni e delle Sezioni distaccate.
    Nella stessa relazione la Corte dei Conti sollecita la Pubblica Amministrazione ad utilizzare appieno l’istituto dell’autotutela che deve essere doverosamente attivata per ripristinare la legalità violata tutte le volte che l’Amministrazione si avveda dell’illegittimità, anche parziale, della pretesa tributaria.
    Anche perché qualunque imposizione tributaria ad un soggetto fisico e/o giuridico deve essere sempre ancorata alla corretta applicazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.